La Mongolia moderna


Dayan Khan

Mentre i discendenti di Gengis Khan si uccidono tra loro, in un paese consegnato ai saccheggi e all’anachia, un popolo mongolo che non aveva partecipato alle conquiste comincia a rendersi illustre. Sono gli Oirati, ancora chiamati Mongoli occidentali, che vivono ad ovest del Lago Baikal e a nord dei Monti Altaj. Menzionati per la prima volta nel 1204 in occasione della loro alleanza con i Naiman contro Gengis Khan, hanno potuto salvaguardare la loro autonomia. Originari della Mongolia occidentale e del corso superiore dell’Enisej, discendono nelle steppe della Mongolia occidentale ad ovest dell’Altaï, alla fine del XIII secolo. Mongketemur, il più potente signore oirato della fine del XIV secolo, ha tre figli, Mahmoud (Ma-ha-mou), T’ai-p’ing e Batou-Bolod. Bloccati dai Mongoli orientali nei loro scambi con la Cina, i khan oirati tentano di impadronirsi del titolo di gran khan e di dominare la regione centrale. Il loro capo Ma-ha-mou, in competizione per il potere con Esseku, il figlio di Ugetchi, stringe alleanza con i Ming contro i Mongoli orientali, che hanno proclamato un discendente di Gengis Khan, Öljei Temür Khan. Dopo la loro vittoria nel 1410, la Mongolia è divisa in due parti, un khanato orientale e un khanato occidentale. Tra il 1434 e il 1438 Toghon, figlio di Ma-ha-mou, estende la dominazione degli Oirati su tutta la Mongolia e fonda l’Impero calmucco. Suo figlio Esen Tayisi riesce in un formidable successo catturando l’imperatore della Cina (della dinastia Ming), nel corso di una battaglia dove 100 000 soldati cinesi perdono la vita. Fu assassinato nel 1455. Gli Oirati si scindono presto in tre gruppi, gli Zungari (o Zùùngar) (Züün Gar [«Mano sinistra»] in mongolo moderno, gruppo che ha dato il suo nome alla Zungaria, attualmente situato nella regione del nord dello Xinjiang), gli Hošuud e i Torgud (attualmente conosciuti sotto il nome di Calmucchi).

La restaurazione dei Mongoli orientali avviene ad opera di una donna eccezionale, Mandukhai Khatun. Ella raccoglie uno dei superstiti della discendenza di Khubilai, Batumöngke, che aveva allora sette anni. Lo mette sul trono, caccia gli Oirati dalla Mongolia e assume la reggenza. All’età di 18 anni, Batumöngke sposa sua madre adottiva e prende il titolo di Dayan Khan (Dayan provenendo dal cinese Da Yuan, che significa «Grande Yuan»). Egli regna per non meno di 73 anni, fino al 1543, su una Mongolia pacificata. Realizza una divisione dei Mongoli orientali che esiste ancora oggi. I Khalkha e i Cahar formano l’ala orientale, i primi in Mongolia centrale e i secondi ad est dell’attuale Mongolia Interna. Gli Ordos e i Tümed formano l’ala occidentale, i primi al centro della Mongolia Interna e i secondi più nord. I Chakhar, essendo guidati dal ramo anziano dei Dayanidi, possono portare il titolo di Gran Khan. Alla morte di Dayan Khan, gli succede il nipote Bodi Alagh, che si dimostra assai capace. Si sforza di unire le tribù mongole e di organizzare un centro amministrativo raggruppando i nobili. Dopo alcuni successi, la sua attività, davanti all’indifferenza dei signori, cede però al separatismo feudale. L’ala destra della Mongolia aderisce ad Altan Khan e lo proclama imperatore. Costui si sforza di ristabilire l’unità della Mongolia, e conduce una serie di campagne contro gli Oirati ostili al raggruppamento delle tribù[1]. Durante il suo regno, in Mongolia si consolida l’agricoltura e si stabiliscono centri commerciali, avviando una fase di maggiore prosperità economica[1].

 

La conversione al buddhismo

Altan Khan (1507?-1582), nipote di Dayan Khan e re dei Tümed, aiutato dal suo pronipote Khutukhtaï-sechen-khontaïji (1540-1586), principe degli Ordos, persegue campagne militari acciate da suo nonno. Vince gli Oirati, si insedia nella provincia cinese del Qinghai, a nord-est del Tibet, e arriva davanti a Pechino nel 1550. Venti anni più tardi, ottiene l’apertura dei mercati alla frontiera della Cina. Fonda Hohhot (Khökh khot [«Città azzurra»] in mongolo moderno), attuale capitale della Mongolia Interna, nel 1575.Khutukhtaï-sechen-khontaïji si converte al buddhismo tibetano nel 1566. Altan Khan segue il suo esempio nel 15º giorno della V luna del 1578, all’epoca di un incontro con Seunam Gyamtso, l’abate del monastero di Drepung. Quest’ultimo è considerato come il terzo successore per reincarnazione di Gendun Drup, discepolo di Tsongkhapa, il fondatore del lignaggio dei Gelugpa. Riceve da Altan Khan il titolo di Dalai Lama, dove dalai è un termine mongolo che significa «oceano». Più tardi, è la volta di Abtai Sain Khan (1554-1588), re dei Khalkha il cui appannaggio si trova nella regione di Karakorum, di convertirsi. La capitale, ripresa dai Mongoli dopo la loro espulsione dalla Cina, è stata distrutta dai Cinesi nel 1380. Sulle sue rovine, nel 1585, Abtai Sain Khan comincia la costruzione del grande monastero di Erdene Zuu (il «Monastero Gioiello»), che esiste ancora oggi. La Mongolia all’inizio del XVIII secolo: la fine dell’indipendenza[modifica | modifica sorgente] Alla morte di Altan Khan, il suo impero, che si estende dal Kokonor alla Grande Muraglia, non tarda a disintegrarsi in domini feudali rivali. L’assenza di mercati e di scambi tra i diversi territori come pure la politica dei Ming, che si sforzano di dividere i feudi mongoli, spiegherebbe per una parte il fallimento della restaurazione dell’impero mongolo. A partire dal 1604, i Cahar sono governati da Ligden Khan (1592-1634), detentore legittimo del titolo di Grand Khan. Egli sogna di acquisire il prestigio di Altan Khan e di raggruppare i Mongoli intorno a lui, ma è un personaggio arrogante e privo di ogni tatto politico. Le tribù della Mongolia meridionale preferiscono dal 1616 aderire ai Manciù, conquistatori recentemente appparsi. Un principe khalkha, Tsogto Taiji, principe brillante, 1580-1637, dal suo vero nome Tsurugul), è il solo della sua tribù a impegnare il combattimento contro i Manciù. Adepto della scuola del buddhismo tibetano dei «Berreti rossi », deve fuggire dalla Mongolia. Si stabilisce nella regione di Kokonor, dove cerca di radunare i khan mongoli. Non riesce a riunire le sue forze con quelle di Lingden. Muore durante una campagna contro il Tibet nel 1637[3], ucciso dal khan oirato Güshi Khan venuto a sostenere il Dalai Lama e il Panchen Lama, capo della setta rivale dei «berretti gialli». Sconfitto dalle truppe manciù nel 1632, Ligden Khan si rifugia sul Qinghai, ma muore di vaiolo. Lo scettro imperiale cade nelle mani di Huang Taiji (1627-1643), il khan manciù, che può da allora pretendere alla sovranità sui Mongoli. Nel 1636, quarantanove principi della Mongolia meridionale riconoscono Huang Taiji come Bogda-khan («Khan Augusto») nel corso di una grande cerimonia sul Lago Doloon, 400 km ad est di Hohhot. Il nome della dinastia è ormai cambiato, il khan manciù è ormai imperatore dei Qing. All’inizio del XVII secolo, gli Oirati si sono stabiliti, sotto il comando degli Ölôd, nella valle dell’Ili. Secondo l’antica organizzazione amministrativa, gli Ölôd si chiamano anche Zungari (ala sinistra). Verso 1630, alcuni feudatari oirari, scontenti della dominazione degli Ölôd, migrano nella regione del basso Volga con 50 000 o 60 000 uomini. Alcuni anni più tardi, sono seguiti dai Torgud e dai Kochot[5].

La dominazione dei Manciù

Nel 1644, i Manciù rovesciano la dinastia cinese dei Ming e stabiliscono la dinastia Qing. I Mongoli meridionali si trovano in tal modo annessi alla Cina. Vivendo in quella che si chiama la Mongolia Interna, non hanno mai ritrovato la loro indipendenza. La sottomissione dei Khalkha ai Manciù è causata dall’emergere del Khanato zungaro con un conquistatore di grande levatura, Galdan, nato nel 1645. Dopo aver sottomesso gli Uiguri dello Xinjiang, i vicini meridionali, si volge verso la Mongolia. Tra il 1688 e il 1690, giunge a mettere in fuga i principi khalkha, che non hanno altra possibilità che domandare l’aiuto dei Manciù. L’imperatore Kangxi accorre incontro agli Zungari e li respinge con la sua artiglieria. I Khalkha gli proclamano il loro vassallaggio nel maggio 1691, sul Lago Doloon. Galdan riparte all’assalto della Mongolia, ma le sue truppe sono schiacciate (e sua moglie uccisa) dall’artiglieria manciù a sud di Ulan Bator, il 12 giugno 1696. Il tempo della supremazia militare dei nomadi sui sedentari, ormai equipaggiati con armi moderne, è passato. Galdan si dà la morte il 3 maggio 1697. Nel 1757, gli Zungari della Zungaria sono definitivamente sconfitti, e perfino praticamente sterminati, dalle truppi cinesi. Pochi Khalkha contestano la sovranità manciù. Si segnala una rivolta condotta dal principe Chingünjav, nel 1756 e nel 1757. Durante la guerra la guerre contro la Zungaria (1754-1757), i khanati khalkha sono diventati il terreno di operazioni degli eserciti manciù, ciò che provoca il malcontento degli arat oltre a quello dei signori laici ed ecclesiastici. I popoli degli Aimak frontalieri dei Khanati jassaktu e sain noion hanno evacuato i loro territori per lottare contro l’occupante e contro i loro signori. Le sollevazioni anti-Manciù sono sostenute da personalità ecclesiastiche quali il secondo khutuktu di Urga (il Bogd Gegeen) il cui fratello Rintchindordji è condotto a Pechino e giustiziato per aver partecipato alle sollevazioni di Amursana. Davanti al malcontento crescente dei Mongoli aggravato dai rigori dell’inverno 1755-1756, l’imperatore Manciù autorizza il capo della Chiesa e il tukhtu a lasciare Pechino e a raggiungere Urga con il corpo di Rintchindordji. Dopo l’annessione del Khanato zungaro da parte della Cina (1757), nella parte dell’antico khanato oirato (attuale aimag di Kobdo) in Mongolia occidentale, si crea un territorio militare autonomo direttamente subordinato al reaprpesenante dell’imperatore, oltre a un settore militare alla frontiera russa. Il consolidamento politico dopo la repressione delle sollevazioni degli Oirati e dei Khalkha permette alla casa imperiale Qing, su istanza dei commercianti cinesi e dei signori mongoli, di autorizzare una ripresa moderata delle relazioni commerciali tra la Cina e la Mongolia. Il numero di commercianti cinesi soggiornanti in Mongolia è ciononostante limitato, come la durata e il luogo del traffico, che deve essere effettuato nelle città autorizzate. La vendita di oggetti in metallo, tranne reare eccezioni, è vietata. È inoltre rigorosamente vietato alle donne cinesi di penetrare in territorio mongolo e di sposarsi[1].

 

I Manciù importano con più o meno successo in Mongolia la burocrazia cinese, che permette loro un controllo esteso della popolazione. Questo sistema ha il merito di vietare le contese intestine dei Mongoli, come pure le razzie che essi lanciano gli uni contro gli altri. Ma i piccoli allevatori sono schiacciati da imposte e corvée e i mercanti cinesi impoveriscono i Mongoli con le loro discutibili transazioni ed i loro prestiti a tassi usurari. A partire dal XIX secolo, l’insediamento di coloni cinesi tende a respingere i Mongoli verso il nord.

 

Organizzazione della Mongolia sotto la dominazione manciù

Fin dal 1691, i Manciù sopprimono l’antico sistema di dipendenza feudale all’interno della classe dirigente. Tutti i signori mongoli sono posti direttamente sotto l’autorità dell’imperatore. Una legge lega maggiormente gli arat ai pascoli: i nobili di prima classe possono possedere 60 famiglie di arat (hamdchilga), mentre quelli di rango inferiore ne devono possedere meno. La conquista manciù mette fine bruscamente al commercio con la Cina. In popoli sottomessi sono isolati perfino all’interno dell’impero, e il commercio è vietato. Nel 1789 e nel 1815, i Manciù promulgano nuovi codici di leggi in Mongolia. L’esecuzione delle leggi e il mantenimento dell’ordine interno dei khanati mongoli sono affidati dal rappresentante supremo dell’imperatore Qing, che detiene il potere militare, politico ed amministrativo e risiede a Uliastaj. Egli si appoggia su dei rappresentanti militari e civili (amban ed hebei-amban). L’amministrazione manciù sopprime il potere dei signori mongoli negli aimag, ma mantiene, limitandolo, il potere dell’assemblea dei superiori degli aimag, chiamati più tardi khoshun. Il presidente (daruga) dell’assemblea assicura il legame con l’amministrazione manciù. Il paese è diviso in khoshun (o khoshuu) la cui superficie ed amministrazione sono determinate dall’imperatore manciù, il primo dei khan, e sono gestite da signori mongoli a titolo ereditario (jasak). I jasak devono assistere all’assemblea triennale dell’aimag per ricevere gli ordini dalla dinastia manciù. Sono coadiuvati da tusulakchi specializzati nelle questioni militari (jakhiragchi), finanziari (meirenen), della cancelleria (bichigechi), da corrieri, ecc. I khoshun sono suddivisi in sumun, unità militari che possono fornire almeno 150 soldati diretti da un sumun dzangai (guidice) qui vigila affinché le disposizioni dell’amministrazione siano eseguiti dagli arat. I sumun sono divisi in bag ed arban. L’unità minima, l’arban, diretta da un capo eletto, il dorga, fornisce dieci soldati. Tra il sumun e l’hochún, lo dzalan è un’unità giudiziaria presieduta da uno dzalan dzangai. L’aristocrazia riceve dei titoli e dei ranghi manciù. I signori che perduto i loro antichi poteri ricevono il titolo di reçoivent le titre de taiji. Quelli che in seguito ad un matrimonio hanno stretto legami familiari con la dinastia regnante, sono chiamati tabunang o efu. Gli antichi khans conservano il loro titolo, ma il loro potere è limitato. Gli arat, pastori legati alla terra, sono in tre gruppi. Gli albatu, il più importante, sono legati alla terra del jasak (padrone) del khoshun. Essi gli devono un tributo in natura e delle prestazioni, come pure un servizio militare permanente ed un servizio postale. I khamjilga dipendono dai taiji, signori che non fanno parte dell’amministrazione. I loro padroni ne dispongono come vogliono ma sono esentati dal servizio postale, di guardia o militare. Gli shabi (allievi) sono in origine ceduti dai loro signori laici per il lavoro delle terre date ai conventi, ma a partire dal 1764 vengono legati alle terre dei conventi e dei notabili ecclesiastici. Il loro numero, da 30 000 nel 1750, aumenta fino a raggiungere 50 000 nel 1810, 72 000 nel 1862, 100 000 nel 1911. Gli shabi sono esentati dal servizio militare, dal servizio postale e dalla guardia. Dal 20 al 40% della popolazione è assorbito dalla Chiesa. Questa situazione limita l’accrescimento della popolazione (celibato) e frena lo sviluppo economico. Nella prima metà del XIX secolo, di fronte alla miseria, numerosi arat abbandonano collettivamente i khoshun più duri per i territori vicini. Altri, soprattutto nella regione frontaliera, disertano per la Russia, malgrado gli accordi russo-manciù sanciscano la consegna dei fuggitivi ai loro vicini. Nel 1803, dei mercanti cinesi di Urga e di Uliastaj sono espulsi su ordine dell’imperatore manciù. Aggirando le misure restrittive, hanno superato la durata del soggiorno autorizzato e stabilito depositi e botteghe. Questa attività illegale è spesso appoggiata da signori mongoli, o addirittura manciù, lesi dalle misure restrittive. Durante la prima parte del XIX secolo, gli aristocratici manciù entrano in contatto con imprese commerciali e finanziarie cinesi interessate ad un commercio intensivo con la Mongolia. Sotto la pressione dei funzionari, della maggioranza dei signori manciù e di una parte dell’aristocrazia mongola, il potere imperiale respinge le domande miranti ad ostacolare il commercio. L’urbanizzazione si sviluppa parallelamente ed Urga, Uliastaj, Kyakhta ed Hovd diventano vere città commerciali, che attirano mercanti russi. La pratica dell’usura a tasso proibitivo guadagna terreno, con gli arat come vittime principali. Gigantesche ditte commerciali e leghe di commercianti appaiono e s’impadroniscono di certi monopoli (trasporto, acquisto di materie prime, ecc.) a detrimento dei signori locali. A partire della seconda metà del XIX secolo, fanno la loro apparizione forme speciali di sfruttamento degli arati, che aggravano ancora la loro miseria. L’abitudine della vendita del diritto della riscossione delle tasse alle imprese usurarie cinesi da parte dei jasak o dei taiji si propaga. L’impoverimento progressivo derivante dai forti tassi d’usura applicati provoca la stagnazione delle forze produttive poi il declino dell’economia. L’eliminazione delle misure proibitive permette al capitale cinese di prendere possesso delle terre mongole. L’insediamento di un ufficio d’immigrazione favorisce la colonizzazione. La miseria e l’appropriazione delle migliori terre costringono gli arat a partire verso i pascoli più magri, mentre si creano enormi fattorie.

 

Cultura populare mongola sotto la dominazione manciù

La traduzione delle opere tibetane prosegue dal XVII al XIX secolo. Il canone tibetano (Kanjur) e i relativi commentari (Tanjur) rappresentano quasi trecento volumi. Comprendono una parte considerevole delle antiche conoscenze scientifiche dell’India, le opere di linguisti, medici e filosofi indiani, i poemi di Kālidāsa. Racconti indiani, il Pañcatantra ed il Vetalapantchavimchatika, si arricchiscono di elementi locali.

La Cina dei Qing nel 1892

Verso la metà del XIX secolo, la poesia populare esprime la lotta per l’indipendenza e la libertà. Nelle canzoni di gesta, i demoni cedono il posto ai khan feudali e funzionari nemici dell’eroe, invariabilmente sconfitti, o li personificano. I racconti popolari come «La Nuora Maligna», «Il Bambino Povero», «Il Bambino di Otto Anni», e i cui eroi umiliano e cacciano la classe dirigente, testimoniano sentimenti antifeudali e antimanciù. Le storie di Badarchin (monaco mendicante) o di Balansenge esprimono sentimenti antilamaisti. Uno dei più eminenti narratori dell’epoca è Sandag, autore di poesie allegoriche. Gelegbalsane diventa maestro nell’arte dei canti che chiedono una benedizione, nei quali descrive la miseria di quelli che implorano aiuto.

Mentre è in corso l’avanzata dei Manciù, Gombo-dorji (1594-1655), un nipote di Abdai Khan, scopre in suo figlio di tre anni (nato nel 1635) un’incarnazione sacra[8]. Poco importa di quale divinità buddhista questo bambino sia l’incarnazione! Può essere un fattore di unità tra i Mongoli e costituire un freno alla «tibetanizzazione» della società mongola. L’idea di Gombo-dorji non ha conseguenze politiche, ma porta alla creazione di una stirpe santa simile a quella dei Dalai Lama: il bambino, che si chiama Zanabazar (deformazione mongola di una parola sanscrita, Jñanavajra “Vajra della Conoscenza”), si reincarnerà ormai dopo ogni decesso. Queste incarnazioni sono conosciute sotto il nome di Jebtsundamba Khutuktu. Zanabazar si reca in Tibet all’età di quattordici anni, tra il 1649 ed il 1651, e riceve un’educazione tibetano-mongola. È nominato dal Dalai Lama sotto il titolo di Bogd Gegeen («pontefice illuminato», uno dei tre titoli importanti per i buddhisti mongoli con quello del Dalai Lama e del Panchen Lama). Diviene un personaggio estremamente brillante: scultore, pittore, architetto e traduttore. Inventa perfino una scrittura fonetica del mongolo, del tibetano e del sanscrito. All’età di 17 anni (o solamente di 13 anni, secondo certe fonti), fonda il monastero di Da Khüree, che diventa a partire dal 1778 e dopo vari spostamenti il nucleo della futura Urga (Ulan Bator). Muore nel 1723, poco dopo un soggiorno di dieci anni in Cina. La forza della sua personalità contribuisce sicuramente al prestigio degli altri Jebtsundamba Khutuktu. Che questi «buddha viventi» non siano stati dei modelli di virtù (due sono morti di sifilide!) non ha cambiato niente. Alla morte del secondo di loro, i Qing decretano che nasceranno in Tibet, sebbene siano ormai di origine tibetana, ma questo non cambia niente neanche nella venerazione che i Mongoli dedicano loro. Così, quando la Mongolia dichiara la sua indipendenza nel 1911, essa si considera come una monarchia diretta dall’ottavo Jebtsundamba Khutuktu, che porta il titolo di Bogd Gegeen.

 

 

 

Il movimento per l’indipendenza

Nel 1890, ad Hovd, un avventuriero di nome Dambïjanstan si fa passare per la reincarnazione di Amursanaa, l’eroe oirato sconfitto nel 1756, e acquista una grande popolarità tra gli arat. Sentendosi appoggiato dalla maggioranza dei jasak, obbliga il governatore manciù a lasciare l’assemblea dell’aimag. Alla fine del XIX secolo, il movimento per l’indipendenza diventa potente tra la classe signorile ed ecclesiastica come tra gli arat. Le diserzioni riprendono. Gli arat fuggono dai grandi domini sino-manciù per riunirsi sulle terre dei signori favorevoli all’indipendenza che li proteggono dall’amministrazione manciù. Il più conosciuto di questi signori, Delguernamdjil, è privato del suo incarico di jasak. La lotta prende così forme più violente. Depositi e succursali delle ditte cinesi, pascoli appartenenti alla eimprese sino-manciù e ai signori mongoli loro alleati sono incendiati. Nel 1892, il rapporto di un tussalakchi di uno dei khoshun dell’aimag khanale tushetu rivela non soltanto che gli arat non possono più pagare le tasse e fornire le prestazioni obbligatorie ma anche che stentano a provvedere al loro cibo. Molti muoiono d’inedia, meurent d’inanition, altri disertano ol territorio del khoshun. Il jasak del khoshun, Tserendondub e lo stesso tussalakchi si rivolgono all’assemblea dell’aimag, domandando l’annullamento, se non della totalità, di almeno una parte delle prestazioni e delle tasse imposte agli arat. L’assemblea dell’aimag rifiuta la loro richiesta, gli altri khoshun soffrendo delle stesse circostanze economiche catastrofiche. Nel 1899, i signori ecclesiastici e laici, sotto la pressione degli arat e dei lama di rango inferiore, inviano una petizione imperativa alla corte imperiale manciù, esigendo la limitazione del potere e dell’attività delle ditte sino-manciù, la sospensione del dispotismo dei funzionari manciù e le dimissioni immediate del governatore di Uliastaj e dei suoi ufficiali, e minacciando di prendere le armi. La casa imperiale s’incarica di domare il movimento mediante la forza e fa comparire i firmatari davanti al tribunale. L’anno seguente, durante la Ribellione dei Boxer, la dinastia manciù decreta un reclutamento militare in Mongolia che deve raggruppare 25 000 uomini. Il reclutamento è sabotato dagli arati come pure dai jasak dei khoshun. Vengono riuniti appena duemila soldati. Poco dopo essere stati messi a disposizione del governatore di Uliastaj, si sollevano, condotti da un arat di nome Enhtaivan. Assediano il palazzo del governatore, demoliscono il campo militare manciù, e rientrano finalmente presso di loro dopo aver incendiato i depositi e gli stabilimenti delle grandi ditte. Durante questi eventi, si scatena una sollevazione nell’aimag tsetsen poi si diffonde nelle regini orientali. I magazzini e le filiali cinesi sono distrutti, le ricevute dei debiti sono bruciate. Nel 1903, varie rivolte falliscono nell’aimag khanale chagatai, organizzate da Aiuchi, il dirigente di un’unità amministrativa minore. Les insorti presentano una petizione al presidente dell’assemblea dell’aimag e al jasak del khoshun. Esigono una diminuzione delle imposte e delle prestazioni, il miglioramento delle condizioni di vita degli arat, la messa in piedi di organi rappresentativi degli arat. Aiuchi e i suoi partigiani sono arrestati, torturati e gettati in prigione. Alcuni mesi più tardi, il jasak Manibazar, davanti ai movimenti degli arat solidali, li libera. A partire dal 1905, sotto l’influenza dei rivoluzionari comunisti russi, il movimento duguylang si propaga nei khanati khalkha. I circoli rivoluzionari popolari, nel limite dei loro quadri, realizzano l’autonomia e l’uguaglianza totale e difendono i loro interessi di fronte ai signori locali. I loro membri si armano per prepararsi alla guerra, che sembra inevitabile. Incoraggiari da questi circoli, gli arat sempre più numerosi disertano le coltivazioni dei loro signori e le imprese sino-manciù. Nel 1906, la rivolta riprende nella maggioranza dei sumuns dell’aimag khanale chagatai allorché il leader Aiuchi è in prigione ad Urga. La rivolta scoppia nell’aimag del khanato tsetsen nel 1909. I magazzini e le botteghe dei mercanti cinesi sono incendiati, e numerosi proprietari uccisi. Truppe manciù inviate per combatterla obbligano Toktokho, il capo della rivolta, a rifugiarsi al di là del Lago Baikal ma le unità partigiane effettuano dei raid periodici contro l contre l’aimag. Dei tumulti scoppiano ad Urga nel marzo 1910. Gli arat e i lama di rango inferiore reclamano la liberazione di Aiuchi. I rivoltosi ricevono l’esercito inviato contro di loro con pietre e bastoni e sbagliano uccidendo lo stesso amban che cercava di pacificarli.

L’autonomia

All’inizio dell’anno 1911, una riunione segreta alla presenza di Bogd Gegeen decide la secessione dall’impero Qing e il riavvicinamento alla Russia imperiale. Col favore della Rivoluzione cinese del 1911, la Mongolia dichiara finalmente la sua indipendenza il 1º dicembre; ai governatori manciù di Urga si intima di lasciare il paese. L’ottavo Bogd Gegeen diventa sovrano del khanato di Mongolia, con il titolo di Bogd Khan. Durante l’estate del 1913, la Repubblica di Cina riunisce forze importanti nel Sinkiang, ma delle trattative con la Russia conducono finalmente ad un accordo: la Cina riconosce l’autonomia della Mongolia, che resta tuttavia teoricamente posta sotto la sua sovranità; nei fatti, però, la Mongolia è divenuta un protettorato della Russia. La Rivoluzione russa priva tuttavia la Mongolia del suo protettore: nel novembre 1919, le truppe cinesi penetrano in Mongolie e si installano ad Urga, occupando il paese. Il Bogd Khan è posto in residenza sorvegliata. La situazione provoca la creazione di due movimenti indipendentisti, l’uno da parte di Damdin Sùhbaatar, tipografo di 26 anni, e l’altro da parte di Horloogijn Čojbalsan, telegrafista di 23 anni. Sùhbaatar aveva giocato un ruolo nel regime del Bogd Khan, come membro dell’Assemblea. Quanto a Čojbalsan, era stato ammesso al corso di lingua russa del Ministero degli affari esteri mongolo. Nel 1920, questi due movimenti si fondono e si avvicinano alla Russia sovietica. Mentre Sùhbaatar e Čojbalsan si installano a Irkutsk, l’Armata bianca è cacciata dalla Russia dall’Armata rossa. Desiderosi di insediarsi in Mongolia, i Giapponesi reclutano tra di loro un ex ufficiale baltico, il barone von Ungern-Sternberg. Con il loro sostegno logistico ed una truppa di 800 cosacchi, costui si impadronisce di Urga il 4 febbraio 1921 cacciando la guarnigione cinese. Questa si rifugia a Kiakhta, alla frontiera russea. Con il pretesto di castigare i Mongoli comunisti, Ungern si abbandona alla peggiori atrocità, il che gli vale il soprannome di «barone pazzo». Tuttavia, rimette il Bogd Khan sul trono. All’inizio dell’anno 1921, il movimento di Sùhbaatar e Čojbalsan prende il nome di “Partito popolare mongolo”, tiene in Siberia in suo primo congresso e istituisce un governo popolare provvisorio, con Sùhbaatar come ministro della guerra. I comunisti mongoli cacciano i Cinesi da Kiakhta, poi prendoni Urga con l’aiuto di ausiliari sovietici. Ungern-Sternberg è battuto e consegnato ai Sovietici, che lo fucilano. Il governo dei comunisti comtrolla ora tutto il paese; il Bogd Khan conserva il titolo di sovrani della Mongolae, ma perde ogni potere temporale. Sono intraprese riforme sociali, ma è solo dopo la morte del pontefice, il 20 maggio 1924, che è messo in pratica un vero regime comunista. Essendo Sùhbaatar («Eroe con la Scure») deceduto un anno prima, Urga è ribattezzata in sua memoria Ulaan Baatar («Eroe Ross»). I dirigenti della nuova repubblica su allineano alla Unione Sovietica.

 

Il regime comunista (1924-1990)

Il 24 gennaio 1929, il maresciallo Čojbalsan diventa presidente della Mongolia, che governa in seguito come Primo ministro fino alla sua morte nel 1952. Sotto il suo regno avranno luogo numerose purghe. Nel 1932, la collettivizzazione forzata delle terre e delle truppe, l’interdizione del lamaismo, provocano un’insurrezione generale repressa dall’Armata popolare. Nel 1939-1940, la Mongolia è la posta in gioco nella Battaglia di Khalkhin Gol. I Giapponesi, che hanno basi in Manciuria e si appoggiano su gruppi di esuli mongoli, tentano di rovesciare il regime comunista. L’esercito sovietico interviene subito per sostenerlo: vi guadagna una preziosa esperienza nella guerra di movimento e particolarmente dei blindati. In assenza del sostegno della Germania, che, al contrario, firma il Patto Molotov-Ribbentrop, il Giappone abbandona il combattimento e firma un trattato di non agressione con l’URSS nell’aprile 1941. La neutralità giapponese contribuirà a salvare l’URSS del disastro nel corso dell’invasione tedesca, qualche mese più tardi. Il 5 gennaio 1951, il governo cinese riconosceva la Mongolia. Il commercio e le relazioni tra le due nazioni sono ristabiliti. La rottura sino-sovietica della fine degli anni 1950 vi pone termine. Alla morte di Čojbalsan nel 1952, il Segretario generale del Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo Yumjaagiin Tsedenbal dirige il paese. L’URSS sostiene la candidatura della Mongolia all’ONU nel 1961. Nel 1962 viene firmato un trattato frontaliero con la Cina nel 1962. Trattati di amicizia e di assistenza sono firmati nel 1966 con l’URSS, rinnovati nel 1986. L’8 agosto 1984, Yumjaagiin Tsedenbal deve dimettersi per autoritarismo. Il suo successore Jambyn Batmönkh lo incolpa della «stagnazione» del paese. Egli riafferma i legami già stretti con l’URSS. Alla fine del 1989, delle riunioni popolari domandano la fine del regno del partito unico. Nuovi partiti, democratico, social-democratico e nazionalisti si creano ed esigono riforme. Sono le premesse della rivoluzione democratica. In seno al partito comunista, la crisi costringe Jambyn Batmönkh alle dimissioni il 21 marzo 1990. Il riferimento al ruolo dirigente del partito è soppresso dalla Costituzione (marzo 1990). Le prime elezioni multipartitiche hanno luogo a luglio. I comunisti si mantengono al potere. Punsalmaagiin Ochirbat, ex ministro del commercio con l’estero e loro candidato alla presidenza, trionfa agevolmente. Egli inaugura un periodo di liberalizzazione politica ed economica.

 

 

 

La Mongolia oggi

Natsagiin Bagabandi, il 15 luglio 2004 al Pentagono.

Una nuova Costituzione, che rispetta i principi della democrazia, dell’economia mista, della libertà d’opinione e della neutralità in politica estera, è adottata nel gennaio 1992. Il nome di repubblica popolare e la stella rossa della bandiera sono abbandonati. Il Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo (PRPM) ricostituito vince le elezioni legislative nel mese di giugno 1992. Il Gran Khural è abolito e un nuovo Gran Khural monocamerale diventa l’organo legislativo del paese. Le ultime truppe dell’ex Unione Sovietica (circa 65 000 soldati) abbandonano la Mongolia alla fine dell’anno 1992. Nel giugno 1993, hanno luogo le prime elezioni presidenziali dirette in Mongolia. Il PRPM è battuto. Aveva proposto come candidato un ideologo comunista contro l’uscente Punsalmaagiin Ochirbat, appoggiato dall’opposizione democratica. Le tensioni politiche impediscono al governo di prendere misure contro la crisi economica. Seri dubbi sulla donversione dei comunisti si fanno strada allorché il partito riabilita Tsedenbal, il «Brežnev mongolo», a titolo postumo e sviluppa una nuova ideologia nazionale fondata sul mantenimento di un importante settore statale e sulla moltiplicazione delle pastoie allo sviluppo delle imprese private. L’Alleanza democratica ottiene una debole maggioranza alle elezioni del 1996, mettendo fine a 75 anni di ininterrotto governo comunista. Il 20 giugno 1997, Natsagiin Bagabandi è eletto alla presidenza nel nome del PRPM. Rieletto nel 2001, non si presenta alle elezioni del 2005 dove è eletto Nambaryn Ėnhbajar.

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